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Con notevole ritardo entrano a regime le disposizioni che danno la possibilità ai dipendenti pubblici di chiedere un anticipo sul Tfs/Tfr (Trattamento di fine servizio/fine rapporto) per un importo massimo di 45mila euro. 

La norma (art. 23 del decreto-legge 28 gennaio 2019) risale ai tempi del primo governo Conte. E immancabilmente è scoppiata la polemica politica: di chi è il merito? Perché quasi due anni di ritardo? In questa polemica il sindacato non intende minimamente entrare.  

Ci sia solo consentito dire che i tempi drammatici in cui ci troviamo richiedono a tutta classe politica meno beghe e più maturità. Perché, certo, i ritardi non vanno affatto bene, ma bisogna anche vedere a quale conclusione si è giunti con questa vicenda. E qui iniziano i veri problemi. 

Infatti, a leggere la sfilza di norme che si sono susseguite su questo argomento e, buon’ultima, la Circolare che la Funzione Pubblica ha inviato alle amministrazioni pubbliche il 13 gennaio scorso, per ottenere l’anticipo sul Tfr il dipendente statale in pensione viene gettato nel solito labirinto burocratico. Basti esaminare come funziona la richiesta. Questi i passaggi:  

Quanto tempo occorre per finire questo giro di Peppe? Se tutto va bene - e in Italia “tutto va bene” è l’eccezione­ non la regola – occorreranno dai cinque ai sei mesi. Non basta: sull’anticipo la banca applica un tasso di interesse “non inferiore allo 0,4%”. Ecco i veri problemi del cittadino a cui la classe politica dovrebbe prestare attenzione.

I soldi del Tfr sono dovuti al lavoratore perché sono suoi. E allora, visto che tutti gridano alla semplificazione ci uniamo al coro: il giorno dopo la collocazione in quiescenza sul conto corrente del neopensionato sia versato il Tfr, senza attese, senza balzelli, senza burocrazia. 

Roma, 2 febbraio 2021