Stampa

Ciclicamente la questione salariale torna di attualità e in questi giorni se ne è discusso sulla stampa. Segretario, come stanno le cose?

 

 

 

 

 

 

 

 

La mia opinione è che oggi nel nostro Paese esista una sfasatura fra gli andamenti retributivi del settore pubblico e quelli del settore industriale coperto dai contratti nazionali firmati dalle organizzazioni comparativamente più rappresentative. I salari dell’industria soffrono per l’attacco dell’inflazione, ma lì almeno i lavoratori possono contare su un sistema contrattuale articolato, evoluto e, soprattutto, vivo. Un settore dove la contrattazione decentrata territoriale e aziendale svolge una funzione importante di integrazione dei livelli salariali attenuando l’impatto dell’inflazione, anche se non si arriva mai al recupero completo. Nel pubblico impiego questo non avviene e le retribuzioni dei dipendenti sono di fatto senza protezione, mentre l’inflazione viaggia ormai da mesi sopra al 10%.

 

Da cosa dipende la sfasatura tra gli andamenti retributivi pubblici e quelli privati?

 

Da due cose: primo, il datore di lavoro pubblico è vincolato a livello nazionale dai limiti di stanziamento decisi dal governo, cioè dalla politica; secondo, la contrattazione decentrata nella Pubblica Amministrazione è ingessata dalla burocrazia e, soprattutto, non può contare sugli strumenti di sostegno fiscale che la legge ha previsto da anni per il settore privato. E le assicuro che, nel tempo, questa differenza si fa sentire. Guardi, le dico solo una cosa: grazie alle norme sulla detassazione dei premi di produttività il livello medio degli importi a livello aziendale nel 2022 è stato pari a oltre 1.660 euro secondo i report periodici del Ministero del lavoro. Una cifra del genere su base annua nelle amministrazioni del comparto Funzioni Centrali i lavoratori se la sognano.

 

Mi sembra di capire che per rimpinguare la busta-paga non c’è altra strada che il rinnovo dei contratti nazionali scaduti.

 

Certo. Bisogna estendere la defiscalizzazione del salario di produttività anche al settore pubblico, come la UIL chiede da anni. Bisogna detassare gli incrementi derivanti dai rinnovi contrattuali. Bisogna dare più slancio alla contrattazione decentrata rimuovendo i tetti di spesa imposti per legge, ma ormai anacronistici. E integrando i fondi per la produttività con le risorse che è possibile recuperare all’interno dei bilanci delle amministrazioni. Io credo che in questa direzione si possano aprire spazi inesplorati che sarebbe ora di conoscere meglio, magari iniziando a studiare a fondo i bilanci degli enti e a chiedere qualche chiarimento su qualche voce di spesa alle nostre controparti in sede di contrattazione decentrata. Ad esempio, sulle consulenze esterne.

 

D’accordo Segretario, ma proprio di recente l’ARAN ha dichiarato che nel 2021 il tasso di contrattazione è stato di appena il 17%.

 

È vero. E aggiungo: ciò significa che più dell’80% delle sedi di negoziazione decentrata dei ministeri non hanno dato notizie di accordi conclusi. E’ una situazione da modificare al più presto. Ma naturalmente bisogna che il sistema contrattuale sia operativo ed efficace ad ogni livello. Questo è il presupposto di base da cui poi discende tutto il resto. Ed è proprio qui che abbiamo un problema.

 

Da qualche giorno circola sui giornali la notizia che i dipendenti pubblici italiani sono pagati peggio di tutti gli altri in Europa.

 

E si meraviglia? Al netto dell’inflazione negli ultimi vent’anni l’andamento della spesa reale per il pubblico impiego in Italia è sceso quasi del 15%, mentre negli altri Paesi dell’Unione è cresciuta in media del 12%. Non lo dice la UILPA, lo dicono i giornali economici avvertendo sulla base di dati ufficiali europei. Ciò significa che in Italia da vent’anni il pubblico impiego finanzia di fatto la spesa pubblica generale, compresi gli interessi sul debito pubblico.

 

È questa dinamica che spiega l’impoverimento dei dipendenti pubblici italiani?

 

Sì, è così. I dipendenti pubblici italiani hanno subito e stanno subendo un impoverimento programmato, che viene loro imposto attraverso il progressivo abbattimento del reddito da lavoro e del potere d’acquisto delle retribuzioni. Non ci vengano poi a raccontare che il pubblico impiego è diventato poco attrattivo per i giovani e che i vincitori dei concorsi pubblici rinunciano al posto. Vorrei vedere il contrario. Ma ormai il gioco sta diventando fin troppo scoperto. Perché è evidente che l’obiettivo di chi guida le scelte della politica è stato ed è tutt’ora quello di creare le condizioni affinché i servizi pubblici gestiti dallo Stato vengano ceduti ai privati con la scusa dell’inefficienza e della scarsa produttività.

 

Si riferisce alle recenti proteste del personale della Motorizzazione Civile per gli organici dimezzati e la privatizzazione dei servizi?

 

Mi riferisco anche a quelle, certo. Ma finché esisterà il sindacato il piano di smantellamento della P.A. non andrà in porto. E il segnale inequivocabile lo daremo proprio nella nuova stagione contrattuale che sta entrando nel vivo con l’attuazione in tutte le amministrazioni del nuovo ordinamento professionale previsto dal CCNL firmato l’anno scorso. Vogliamo recuperare tutti gli spazi partecipativi che il contratto collettivo ci mette a disposizione: più informazione, più partecipazione, più contrattazione, più trasparenza, più democrazia e più diritti per i lavoratori. Ma soprattutto significano difesa e rilancio dei servizi pubblici gestiti dal pubblico, passando dalla logica dei costi da tagliare a quella degli investimenti da programmare e gestire. Investimenti che devono riguardare anche e soprattutto le risorse umane e i livelli retributivi. Se i lavoratori saranno pagati adeguatamente a quel punto sarà risolto anche il problema della produttività.

 

A cura dell’Ufficio comunicazione UIL Pubblica Amministrazione 

 

Roma, 14 febbraio 2023