Per contrastare il fenomeno dell’assenteismo nel pubblico impiego nel 2008 vennero prese misure particolarmente drastiche in vigore tutt’oggi. Si tratta della riduzione del trattamento economico nei primi dieci giorni di assenza per malattia e dell’ampliamento delle fasce di reperibilità dalle 8:00 alle 13:00 e dalle 14:00 alle 20:00 (passate successivamente dalle 9:00 alle 13:00 e dalle 15:00 alle 18:00). Come se non bastasse il medico fiscale poteva e può effettuare più volte il controllo a domicilio e addirittura persino nel corso della stessa giornata. Una stretta che ha riguardato solo i dipendenti pubblici. Giustamente per i privati rimasero e sono ancor oggi rimaste in vigore le vecchie fasce di reperibilità dalle 10:00 alle 12:00 e dalle 17:00 alle 19:00.
Gli effetti di quel provvedimento sono noti. Da tredici anni a questa parte, ammalarsi nel pubblico impiego è diventato un lusso da pagare a parte. La tutela della malattia, conquistata dai lavoratori in anni di lotte sindacali, per i pubblici dipendenti si è trasformata in un diritto condizionato. Ti puoi ammalare, ma la tutela piena è garantita a condizione di dimostrare che stai parecchio, ma parecchio male (certificato medico con prognosi di più di 10 giorni). Altrimenti, siccome è possibile/probabile che ci stai marciando, paghi un ticket sotto forma di trattenuta giornaliera sulle indennità accessorie per ogni giornata di assenza. Qualcuno l’ha chiamata la tassa sui furbetti del certificato.
Aberrante? Sì, ma coerente con i virus neoliberisti che presiederono il modo di gestire il personale da una trentina d’anni a questa parte. E così anche la p.a. s’è beccata i suoi virus. Per esempio quelli dell’efficienza sulla carta di grafici e diagrammi, della burocrazia statale travestita da manager all’americana e dell’immancabile inglesorum. Tre virus che hanno infettato a lungo la gestione della macchina pubblica.
Questa visione ha fatto il suo tempo, non ha dato risultati in nessuna pubblica amministrazione ed è alla base del surrettizio prelievo di soldi dalle buste paga dei dipendenti pubblici. Prelievo che dura da tredici anni su una forza-lavoro che in larga maggioranza percepisce bassi stipendi. Qualcuno ha fatto i conti dei soldi risparmiati dallo Stato grazie alle malattie dei suoi “eroi”? In cambio di cosa, poi? Disaffezione e malcontento sui posti di lavoro e nessuna correlazione diretta con il miglioramento delle performance. Peggio ancora: nessun miglioramento dei servizi resi all’utenza. Dove sono andati a finire questi soldi? Nelle consulenze dorate? Alle aziende private che appaltano servizi pubblici facendoseli pagare delle fortune?
Dal 2008 a oggi molta acqua è passata sotto i ponti. L’art. 71 del decreto-legge 112/2008 che istituì le misure di cui sopra era dettato, come molte altre norme simili di quel periodo, da obiettivi di contenimento della spesa pubblica, a iniziare dal costo del personale. L’imperativo era risparmiare, risparmiare, risparmiare. Ma oggi è arrivato il momento di ammettere che la riduzione del trattamento economico per i primi dieci giorni di malattia dei dipendenti pubblici era ed è una misura discriminatoria, scarsamente efficace e che ha contribuito a impoverire ulteriormente i lavoratori del pubblico impiego.
Tredici anni sono pochi da un punto di vista quantitativo, moltissimi dal punto di vista qualitativo: l’amministrazione pubblica di oggi non è più quella del 2008. I dipendenti delle Funzioni Centrali sono scesi da circa 290.000 a 234.000, l’età media è salita a 54 anni, gli over 50 sfiorano il 75% e il 27% ha più di 60 anni (dati al 31.12.2018). Con una simile demografia della forza-lavoro, la malattia inferiore a dieci giorni può ancora essere considerata un espediente per restarsene a casa? Non basta: con circa 300.000 posti di lavoro persi in 15 anni, la p.a. del 2021 può continuare a garantire il mantenimento dei servizi erogati alla collettività in un solo modo: redistribuendo i carichi di lavoro e inventando soluzioni organizzative che comportano un ampliamento delle competenze richieste agli operatori di tutte le qualifiche.
Dunque, al di là della stanca retorica sui furbetti del certificato o del cartellino, il cambiamento dei sistemi di lavoro è già vivo nel presente del lavoro pubblico. Ma la politica che gestisce la pubblica amministrazione non ne è sembrata consapevole (almeno fino a ieri, per l’oggi dobbiamo vedere). La flessibilità individuale, la complessità e la molteplicità delle competenze, la capacità di adeguarsi efficacemente a contesti strutturali e normativi in continuo mutamento caratterizzano da tempo il lavoro quotidiano dei pubblici dipendenti come mai era avvenuto in passato.
E poi è arrivato il Coronavirus. A reggere il Paese sono stati proprio quegli impiegati pubblici svillaneggiati dalla sera alla mattina sulla stampa, in Tv e per ogni dove. Impiegati che hanno dimostrato una capacità reattiva inaspettata da chi poco o nulla ha compreso della realtà dell’amministrazione dello Stato, ma tanto ha pontificato, a iniziare da molte grandi firme del giornalismo, blasonati economisti, strapagati giuslavoristi. Nella realtà concreta, da un anno a questa parte centinaia di migliaia di impiegati pubblici dalle proprie abitazioni e con i propri dispositivi tecnologici hanno permesso alla macchina amministrativa dello Stato di continuare a funzionare e all’Italia di stare in piedi.
Bene, detto tutto questo, la domanda che oggi s’impone è: nel 2021 ha ancora senso mantenere le vessatorie misure del 2008 sull’assenza per malattia dei dipendenti pubblici? No, perché riflettono una concezione superata dell’organizzazione del lavoro, figlia di teorie economiche e di modelli di sviluppo che hanno fallito i loro obiettivi (a parte quelli di arricchire una élite). Quelle inutili misure sono lo specchio di una visione distorta del lavoro pubblico entrata in crisi già prima della pandemia. Ma che ora, nel momento in cui la macchina pubblica deve diventare il motore che guida il Paese verso la ripresa socio-economica, appare completamente illogica e anacronistica. Da seppellire insieme al Covid-19 e al neoliberismo.
Sandro Colombi, Segretario generale dalla Uilpa
Roma, 19 marzo 2021